La nuova luce negli occhi tornati sorridenti e l’abbraccio al «mio angelo, perché è lei che mi ha salvato la vita» sono la cifra di una storia degli orrori durata oltre 13 anni che inizia a sperare nel lieto fine. Un traguardo ancora lontano per le lungaggini della giurisdizione italiana, ma che sembra meno impossibile grazie a un sodalizio tra donne che lottano per conquistare un futuro senza più soprusi. Un atto di fiducia verso lo Stato, nonostante tutto, alimentato dallo scambio continuo di consigli e pareri legali tra l’avvocata penalista Ilenia Guerrieri, vicepresidente di Donne al Centro, associazione di volontariato che assiste a gratuito patrocinio le vittime di violenza di genere, e Camilla (nome di fantasia), una donna di origini rumene arrivata a Roma 25 anni fa con un bellissimo lavoro da agente immobiliare.
Oggi, è lei l’ennesima vittima sopravvissuta al peggio, dopo aver attraversato un tunnel di dolore in casa, per i maltrattamenti continui subiti dal suo compagno. Un libero professionista e professore universitario italiano, con cui la donna ha avuto una figlia, Beatrice (nome di fantasia), oggi studentessa in un liceo della Capitale e militante in difesa dei diritti delle categorie più fragili, che spesso non hanno voce né tutele.
L’inferno a casa
Sabato 23 novembre al corteo a Roma c’è stato il loro grido di dolore per tutte le donne che vivono un inferno tra le mura domestiche; nel loro caso, per mano di un uomo violento, cocainomane e spietato che, però, diceva di amarle e le minacciava di suicidarsi qualora lo avessero abbandonato, con la (falsa) promessa che sarebbe andato a disintossicarsi. Non importava che, invece, tirasse la coca davanti alla bambina e che mettesse in campo comportamenti aggressivi e manipolatori, o che fosse persino arrivato a intimidire la compagna e madre di sua figlia con delle frasi sconcertanti: «In casa aveva una pistola e ripeteva battute come “Farai una brutta fine”; oppure scherzando mi diceva “Ci metto un attimo a parlare con due albanesi che ti fanno fuori”, riferendosi agli spacciatori da cui prendeva la droga», racconta Camilla, che percepisce ancora forte, addosso, la paura di morire.
La violenza economica
«Una sensazione bruttissima, una cosa orribile. Oggi alle donne che vivono quello che è capitato a noi in casa però dico di andare oltre la paura e prendere coraggio, per agire il prima possibile. Io prima di denunciare ci ho messo del tempo, se non avessi avuto il sostegno di Donne al Centro, non lo avrei fatto. Se hai un figlio e non hai un lavoro è difficile trovare la forza di reagire. Lo Stato non ti aiuta, non ti senti in grado di fare qualcosa, perché non sapresti nemmeno come mantenere tuo figlio. Pensi che lo perderesti. Così, vai avanti con le botte e con la speranza che un giorno le cose miglioreranno», ammette Camilla che negli anni ha affrontato e subito un’escalation di violenze di ogni genere, fin quando un giorno è riuscita a lasciare il compagno.
La violenza dell’ex compagno
«Inizialmente ho mantenuto comunque un rapporto, perché mi aveva chiesto di aiutarlo a uscire fuori dalla droga. Ma un giorno eravamo in campagna con mia figlia che aveva ricevuto dal padre un suo vecchio telefonino come regalo di Natale e dentro quel dispositivo abbiamo trovato dei filmini osceni. Video di lui che faceva sesso con altre donne. A quel punto il mio ex compagno ha iniziato a lanciare oggetti contro di noi e siamo dovute scappare dai vicini di casa, in pigiama e scalze per evitare di essere malmenate. Era poco prima di mezzanotte, siamo rimaste fuori casa tutta la notte, terrorizzate», racconta la donna che da quel momento ha atteso un anno e mezzo prima di denunciare: «Quando l’ha saputo, è diventato una furia. È venuto a casa ed è andato in escandescenza. Siamo dovute scappare di nuovo dai vicini per chiedere aiuto, temevo che prendesse un coltello e ci uccidesse. Allora, si è attaccato al citofono a urlare che ci avrebbe ammazzato. Poi ha preso il cellulare e ha mandato a nostra figlia delle foto di me a seno nudo in pose ammiccanti e in atteggiamenti intimi che avevo condiviso con lui, per screditare la mia figura», riferisce Camilla, completando il racconto degli orrori. La denuncia penale nei confronti dell’uomo per maltrattamenti in famiglia e revenge porn risale a dicembre 2022. «L’ho fatto per mia figlia, si merita di meglio e di essere tutelata e da sola non poteva difendersi», spiega la donna che sta affrontando il processo, dopo che il Giudice dell’udienza preliminare di Roma, a settembre 2024, ha disposto il rinvio a giudizio dell’uomo con la doppia imputazione e contestato l’ipotesi aggravata dei maltrattamenti anche della minore.
Quattrodici mesi per la prima udienza
La prima udienza dinanzi il Tribunale però è stata fissata per il 10 dicembre 2025, tra oltre un anno. «Far aspettare 14 mesi per l’inizio del processo penale è una vergogna, in uno Stato che dice di voler combattere la violenza contro le donne – incalza l’avvocata Guerrieri – La tempestività della risposta processuale è indispensabile, affinché una donna si senta assistita e protetta. Come si può chiedere a una vittima di violenza domestica, che ha avuto il coraggio di denunciare il suo aguzzino, di aspettare tutto questo tempo solo per l’inizio del processo? Questo è uno dei motivi per cui le donne spesso decidono di non denunciare», aggiunge la legale. I tempi processuali così lunghi non consentano di poter mettere la parola fine al dolore provato, che continua a logorare le vittime. E senza considerare i danni alla salute provocati dal subire maltrattamenti in famiglia in modo prolungato: «Camilla ha avuto un problema cardiologico, la paura si era trasformata in malessere; Beatrice sta ancora molto male, con episodi di ansia e depressione. Era seguita infatti da uno psicologo fin quando il padre non le ha negato il consenso. Ora è stato nominato un curatore per lei e riprenderà finalmente il percorso», spiega l’avvocata, prima che riprenda la parola la sua assistita: «Quando ho denunciato suo padre, sono stata denunciata a mia volta da lui per calunnia. Mi minacciava di togliermi la bambina. Accusa di cui è stata richiesta l’archiviazione. Le sue frasi ripetute negli anni “Se fai qualcosa ti levo Beatrice, tu non sei nessuno”, ti portano a non credere più in te stessa. Ti dimentichi chi eri, a un certo punto».
Ti isolano e ti rendono dipendente
Camilla non vede l’ora che tutto finisca con un lieto fine, ma quando vede una macchina simile a quella del suo ex compagno le vengono ancora i brividi. «Per l’abuso di autorità e la violenza sulle donne non esiste né classe sociale, né colore della pelle. Credo che solo partendo dall’educazione affettiva nelle scuole, si possano cambiare le cose», riflette la donna, in ultimo. «Il fenomeno della violenza di genere tra le mura domestiche è trasversale, sono pochi gli uomini che tollerano un rapporto alla pari con la compagna. La mia assistita quando tutto è cominciato era giovane, straniera, una bellissima donna indipendente arrivata in Italia, dove ha conosciuto il libero professionista e docente che poi è divenuto il suo compagno e aguzzino. Lei lo venerava, perché in casa si faceva valere una supremazia culturale e di posizione sociale e questo genere di reati si determinano proprio in questi spazi familiari. Lo schema – conclude la legale – si ripete: la donna lascia il lavoro, diventa mamma, non ha una famiglia di origine vicino, né una capacità economica. Piano piano viene messa in condizione di dipendere dall’altro, con la violenza che cresce passo dopo passo. Prima sei la loro principessa, poi il narcisista, il bianco potente ti annienta».
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